Femminile plurale – storie di donne che sono arrivate in alto

Capitolo 5-Chiusa  di Pesio, ore 12.30: Patricia,

ovvero «<La montagna come spazio ideale per la creatività>>

Il primo contatto che mi ha dato Patrizia è quello della sua quasi omonima Patricia, francese di Bordeaux che, da più di 15 anni, vive a Chiusa Pesio, dove produce vetro artistico in una piccola bottega-laboratorio affacciata sulla piazza principale.

Niente di più normale, penso mentre guido. Qui il vetro è di casa dal 1759, quando Carlo Emanuele III ordinò il trasferimento a Chiusa della Regia Fabbrica di Vetri e Cristalli-azienda di Stato» sabauda che sfornava stoviglie e vetri di ogni tipo da uno stabilimento di Borgo Po, dall’altra parte del fiume rispetto a quella che allora era la piazza d’armi, e che oggi è la piazza Vittorio della movida torinese.

A Chiusa  di Pesio il vetro non si produce più su grande scala dal 1854, mentre è degli anni ’80 la dismissione della fabbrica di ceramiche che, per quasi due secoli, ne aveva fatto la capitale di un minuscolo distretto artigianale-industriale.

Appena metto piede nel laboratorio di Patricia, frastornato dalla bellezza delle sue creazioni (soprattutto gioielli) e ancora di più dai colori delle bacchette di vetro grezzo, che vengono fuse per creare ogni tipo di oggetto, mie convinzioni riguardo al fatto che in un luogo del genere lavorare il vetro sia la scelta più ovvia per un’artista vengono subito fatte vacillare.

«Vengo da una famiglia in cui il vetro è molto importante, mio padre è un grande appassionato collezionista, ma io lo lavoro solo da due anni. Prima producevo merletti al tombolo, usando una tecnica tradizionale occitana, quella dei Pouientes (o polhentas), tipici soprattutto della Val Varaita. Poi per diverse ragioni, ho abbandonato i merletti e mi sono buttata sul vetro. L’occasione è stata la possibilità di lavorare in collaborazione con il Museo della Regia Fabbrica dei Cristalli e della Ceramica con l’associazione Chiusa Antica, svolgendo laboratori con i bambini, sia nel mio laboratorio che nelle scuole. Ho incontrato una vetraia di Murano, che è diventata la mia maestra, mi sono messa a lavorare il vetro tutti i giorni per ore e ore ed eccomi qui».

Mentre mi racconta la storia del suo avvicinamento a questo materiale, tira fuori da una fodera di velluto un incredibile collana composta da decine di fiori colorati di vetro, che verrà messa all’asta di li a poco. Il laboratorio-bottega di Patricia, che condivide con una pittrice e una ceramista, fa parte di una realtà dal nome Chius’Arte, con una visione – come mi sembra di capire sia frequente tra le Donne di Montagna del Coordinamento – che va oltre i semplici laboratori didattici o la vendita dei prodotti artigianali.

-La stessa attività in città avrebbe un senso completamente diverso. In città l’artigianato è molto legato al commercio; o si ha un giro fisso di clienti che non comprano solo quello che impone la moda. oppure si chiude. Per non parlare dei costi di gestione, che sono improponibili. -Secondo me è meglio puntare su territori montani che credono nell’artigianato come strumento per aumentare l’attrattiva del paese, creando così una relazione tra turismo e mercato per le attività artigianali. E poi gli affitti sono bassissimi! In città tu non porti niente al territorio e in fondo, a ben guardare, la città non dà niente a te.

<lo sono una sognatrice e mi immagino Chiusa Pesio come un laboratorio diffuso, dove le persone vengano apposta per visitare le botteghe, partecipare ai laboratori, restituendo al tempo stesso vitalità a un paese che negli ultimi anni si è molto spento».

In un certo senso il centro di Chiusa Pesio è già un piccolo laboratorio artistico-artigiano diffuso, dove riesco subito a toccare con mano come a volte gli artisti abbiano sensibilità diverse. Dalla bottega accanto a quella in cui ci troviamo io e Patricia, infatti, ogni tanto arrivano urla irripetibili, lanciate da uno scultore che, a intuito, sembrerebbe non proprio soddisfatto dei risultati del suo lavoro.

<Non riesco davvero a capire come una persona possa creare bestemmiando. Se fai una cosa mettendoci il cuore, elabori la materia con felicità, la felicità è inglobata nell’opera. Però ognuno ha il suo modo di rapportarsi con le proprie creazioni».

Ecco, a proposito: come si fa a conciliare lo slancio artistico con la necessità di vendere e guadagnare con le proprie opere?

«Per mettere le mani avanti, mi sento di dire che se si è in coppia e uno dei due è artigiano, è meglio che l’altro o l’altra abbia un lavoro fisso. Purtroppo, oltre ai costi elevati, si è diffusa una mentalità sbagliata nei nostri confronti, una scarsa consapevolezza del valore degli oggetti tra i consumatori, e pochissime agevolazioni per gli artigiani, che poi spesso sono anche artisti.

«Eppure intorno a me ci sono tantissime giovani, anche laureate, che cercano di trasformare il proprio hobby in un lavoro. Solo quest’anno cinque ragazze che conosco si sono messe a creare gioielli a partire da materiali di scarto.

E per chi lavora bene, il mercato c’è.

«A parte il caso di chi plagia, riproducendo oggetti d’artigianato o opere viste da qualcun altro, la creatività se è ben fatta non può stancare, perché unica. «È un percorso testa-cuore-mano, non testa-portafoglio-mano.

 

«Se metti dieci artigiane a fare la stessa cosa, avrai dieci interpretazioni diverse dello stesso soggetto.

 

«Creare è diverso da produrre. Io in parte produco, riproducendo oggetti simili o uguali a quelli che ho già fatto e che so di poter vendere perché piacciono. Anche se non saranno mai davvero uguali, ed è questo il bello delle cose fatte a mano.

 

«Questa produzione mi serve per pagare il resto del mio lavoro, quello della creazione, fatto di esperimenti, a volte anche falliti, di opere che non sono sicura piaceranno ai clienti, e così via. «Sono due fasi distinte. «Inoltre, non rifare due volte lo stesso pezzo è anche una questione di rispetto per le persone che li hanno comprati, considerandoli unici».

Mi rendo conto di come l’idea di montagna che ha Patricia sia diversa da quella di Patrizia e sarà sicuramente diversa da quella delle altre donne che incontrerò in questa giornata e di quelle che racconterà Irene. Quella di Chiusa Pesio e dei suoi laboratori artigiani è una montagna quasi urbana, artistica, intellettuale, lontana dalla montagna dell’agricoltura, dell’allevamento o dello sport d’alta quota. Ciò che accomuna queste nuove abitanti però è lo scegliere. Di abitare in un territorio, di realizzarci i propri progetti di vita, di riconoscerne i limiti, cercando di valorizzarne le potenzialità. Come mi conferma anche Patricia, non è tanto una questione di essere nuovi abitanti, quanto di abitare in modo nuovo, più consapevole.

-Come in tutti i paesi, c’è chi propone progetti per cambiare e migliorare e chi invece rema contro anche a priori, solo perché non capisce come si possa venire da fuori e amare il posto in cui si vive come me.

Molti però hanno scelto di rimanere a Chiusa e tengono al proprio piccolo angolo di mondo. Io penso che se un posto non ti piace, non ci stai bene, nessuno ti obbliga a rimanerci».

 

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